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Maurizio Matteo Dècina GOODBYE TELECOM LABANDADELLA BANDA LARGA IL PIANO DI TELEFÓNICA E IL NUOVO ORDINE MONDIALE Prefazione di Giuseppe Oddo Postfazione di Franco Lombardi PREFAZIONE L’impegno di Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo a cedere alla spagnola Telefónica le rispettive quote in Telco determina il passaggio del controllo di Telecom Italia a una società estera. Non occorreva essere degli indovini, per capire che il destino del maggior gruppo di telecomunicazioni italiano era segnato. Per stare al passo con l’evoluzione delle tecnologie, le telecomunicazioni necessitano di investimenti a rendimento molto differito nel tempo e le banche, oberate da una massa di crediti inesigibili, sono i soggetti meno adatti a sostenere progetti strategici di lungo termine che in tempo di recessione possono tradursi in pesanti minusvalenze. D’altro canto, si era già visto nell’autunno 1997, al momento della privatizzazione di Telecom, con quale e quanto entusiasmo, con quale e quanta convinzione i principali istituti di credito avessero accettato di far parte del «nocciolino duro» – per usare la sprezzante definizione che ne aveva dato l’allora presidente esecutivo della società, Gian Mario Rossignolo, uomo designato da Umberto Agnelli per conto dell’Ifil.

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Publié le 28 janvier 2017
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Langue Italiano
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Maurizio Matteo Dècina
GOODBYE TELECOM LABANDADELLA BANDA LARGA IL PIANO DI TELEFÓNICA E IL NUOVO ORDINE MONDIALE
Prefazione di Giuseppe Oddo
Postfazione di Franco Lombardi
PREFAZIONE
L’impegno di Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo a cede re alla spagnola Telefónica le rispettive quote in Telco determina il passaggio del controllo di Telecom Italia a una società estera. Non occorreva essere degli indovini, per capire che il destino del maggior gruppo di telecomunicazioni italiano era segnato. Per stare al passo con l’evoluzione delle tecnologie, le telecomunica zioni necessitano di investimenti a rendimento molto differito nel tempo e le banche, oberate da una massa di crediti inesigibili, so no i soggetti meno adatti a sostenere progetti strategici di lungo termine che in tempo di recessione possono tradursi in pesanti minusvalenze. D’altro canto, si era già visto nell’autunno 1997, al momento della privatizzazione di Telecom, con quale e quanto entusiasmo, con quale e quanta convinzione i principali istituti di credito avessero accettato di far parte del «nocciolino duro» – per usare la sprezzante definizione che ne aveva dato l’allora pre sidente esecutivo della società, Gian Mario Rossignolo, uomo de signato da Umberto Agnelli per conto dell’Ifil. Tutto ciò che è successo dopo quella data, che porta il marchio indelebile del pri mo governo Prodi e di coloro che all’epoca erano i responsabili del Tesoro, è la conseguenza di quel madornale errore di parten za. Il governo cedette Telecom in Borsa a una platea diffusa di piccoli azionisti e di investitori istituzionali senza capire o facen do finta di non sapere che, in un Paese le cui principali aziende sono sotto il controllo di grandi famiglie, una struttura azionaria
del genere avrebbe potuto durare solo con la presenza di un for te e coeso nucleo di soci stabili e con lo Stato determinato a far valere la golden share. L’idea, sciagurata, che l’impalcatura del «nocciolino» azionario di Telecom potesse reggersi unicamente sulla presenza dell’Ifil, l’allora società finanziaria della famiglia Agnelli, fu una trovata disastrosa. Non solo perché la famiglia Agnelli non ebbe alcuna percezione del ruolo trainante che rive stivano i servizi di telecomunicazione (peraltro proprio in un pe riodo in cui la crisi di Fiat era già in fase di gestazione), ma anche perché in quegli anni in cima ai pensieri del gruppo Ifil c’erano le banche, e in particolare l’Istituto San Paolo di Torino, dove le so cietà della famiglia Agnelli avevano acquisito una quota. Nono stante gli sbarramenti posti dal governo, Telecom fu resa conten dibile sul nascere anche grazie al fatto che aveva un modesto ca rico debitorio, circostanza che la rendeva una preda alla mercé delle grandi banche d’affari internazionali. È vero che il Tesoro agì sotto la pressione del patto AndreattaVan Miert, che obbli gava lo Stato italiano ad abbattere i debiti dell’Iri, cui Telecom fa ceva capo, e che fu costretto ad accelerare la privatizzazione per non mettere a rischio l’ingresso dell’Italia nell’euro, ma avrebbe potuto agire soppesando meglio quello che avrebbe dovuto esse re l’interesse nazionale. Altro errore fu il via libera concesso nel 1999 dal governo D’Alema (ministro del Tesoro lo stesso Ciampi) alla scalata osti le dei «capitani coraggiosi» calati da Brescia e da Mantova, che con la lussemburghese Bell acquisirono a debito dapprima il controllo di Olivetti e subito dopo, tramite questa, il controllo di Telecom; operazione che non sarebbe potuta avvenire senza il sostegno tecnicofinanziario di Chase Manhattan, Lehman Brothers e Mediobanca e senza la vendita di Omnitel (l’odierna Vodafone Italia). Le vicende aziendali di Telecom successive al 1997 – l’Opv del Tesoro, due anni dopo l’Opa ostile di Colaninno, nel 2001 l’ac quisizione del gruppo da parte di Pirelli e Benetton e nel 2007 la vendita a Telco – furono in sostanza la conseguenza di quella ca
tena di errori. È cominciato in quel momento il processo di spo liazione e di indebitamento della compagnia, che – come spiega Maurizio Matteo Dècina in questo bel saggio che si legge tutto d’un fiato – ha determinato un drenaggio di risorse per 24 mi liardi che si sarebbero potuti spendere per dotare l’Italia di una rete in fibra ottica di nuova generazione. Dècina incrocia i fatti con i numeri per far emergere il lato strumentale di alcuni degli affari che caratterizzarono le gestioni del decennio 19992007. Per esempio, ancora oggi sfugge il si gnificato dell’Opa di Telecom sulla quota di minoranza di Tim per la «modica» cifra di 15 miliardi di euro. Che se ne faceva la Telecom di Marco Tronchetti Provera del 100% di Tim, quando già ne possedeva la maggioranza? A cosa servì l’operazione, ol tre che ad accrescere il debito consolidato di Telecom e a paga re profumatamente le banche d’affari che curarono l’offerta in Borsa? E che vantaggio ebbe Telecom dalla cessione degli im mobili ai fondi di Pirelli Re? Le risposte di Tronchetti a questi interrogativi non sono mai state convincenti. Avrebbe potuto chiedergliene conto il consiglio d’amministrazione di Telco, se non fosse che Telco è partecipata (ancora per poco) da Medio banca e Generali, che Pirelli fa parte del patto di sindacato di Mediobanca, che Mediobanca e Generali sono a loro volta soci di Pirelli e che Tronchetti è vicepresidente di Mediobanca (at tualmente sospeso perché rinviato a giudizio). Classico caso di capitalismo italico. Non si possono nutrire rimpianti per l’era dei «boiardi» e del la lottizzazione delle partecipazioni statali, che è stata fonte di in quinamento della vita pubblica e di distorsione delle regole del la concorrenza, anche se è a manager di Stato del calibro di En rico Mattei e di Gugliemo Reiss Romoli che dobbiamo la crea zione di grandi gruppi come Eni e Stet (la holding dell’Iri poi fu sa con Telecom). Ma di questo capitalismo senza capitali che pri vatizza i profitti e socializza le perdite, che predica il liberismo e patteggia con la politica per ottenere protezioni e rendite, non se ne sente affatto il bisogno.
Secondo Dècina, sarebbe auspicabile per una nuova fase di sviluppo delle telecomunicazioni un ritorno dello Stato nella gov ernance di Telecom. Con 8 miliardi investiti in una moderna rete ottica si potrebbero creare, scrive l’autore, 40mila posti di lavoro e «ritorni economici, in termini di gettito fiscale, ben superiori al l’esborso iniziale». Non so se questa sia la strada per rilanciare il settore. Constato però che in Germania e in Francia gli ex mo nopoli, ancorché quotati in Borsa, sono rimasti a maggioranza o a forte controllo pubblico e che in Italia da tre lustri la Telecom privatizzata continua a cambiare padrone e management, a rifare piani industriali e a vivere in una condizione di destabilizzazione permanente che rischia di disperdere un patrimonio industriale strategico per il futuro del Paese e dell’economia.
GIUSEPPEODDO
GOODBYETELECOM
ENTUSIASMO E DISINCANTO UNA NOTA PERSONALE
Dal boom al crollo
All’inizio del 2000, dopo alcuni anni di «apprendistato» in una grande società di consulenza internazionale, pieno di entusiasmo mi «imbarcai» per la Spagna. Non avevo ancora trent’anni. Anda vo a lavorare in una delle tante aziende legate al gruppo Telecom che all’epoca contava una trentina di società in altrettanti Paesi del mondo. L’atmosfera che si respirava in quel periodo era veramen te straordinaria. C’erano entusiasmo, aspettativa di crescita, ecci tazione. La fiducia nelle capacità manageriali e nel knowhow tec nologico andavano ben oltre l’illusione speculativa della new eco nomy. Con i miei colleghi guardavamo la mappa delle partecipa zioni internazionali come quando si gioca aRisiKo!e si piazzano i carri armati nei punti strategici. Più la guardavamo e più ci con vincevamo di far parte di una squadra vincente. C’era chi ipotiz zava una futura espansione sui territori asiatici e chi, più pruden temente, puntava sulla difesa dei già consolidati mercati europei. Per i giovani che come me avevano scelto il lavoro all’estero, nel le varie società del gruppo, il leitmotiv perfetto era la bellissima Con te partiròcantata da Andrea Bocelli, colonna sonora e inno spot dell’allora nascente e già stellare Tim. In quegli anni la Telecom era decisamente un’azienda vincente. Tutto il mondo invidiava le sue competenze e i successi maturati in anni di ricerche: dalle origini della telefonia fino alle ultime in
novazioni della Tim, prima azienda del mondo a lanciare sul mer cato la carta prepagata. La sensazione di giocare in una delle squa dre più forti era davvero inebriante, soprattutto per un giovane consulente che, a furia di corsi manageriali, aveva maturato una fe de assoluta per i risultati aziendali e per la vittoria di squadra. Quell’anno ricordo che in prossimità delle feste natalizie Tele com aveva distribuito a tutti i dipendenti oltrefrontiera delle cra vatte con il logo e i colori dell’azienda. Per noi italiani all’estero era motivo di orgoglio. La ostentavamo ad ogni riunione, fieri e sicuri del marchio che rappresentava. Era il segno di un’apparte nenza aziendale che, al di là del vestito sempre impeccabile e del la cravatta firmata, indicava un benessere economico generale. Gli esiti hanno però deluso le aspettative. È successo infatti qualcosa che noi giovani, dediti ore e ore a contemplare e a ri flettere su quel mappamondo, non avremmo mai creduto: ven dita quasi totale delle partecipazioni, licenziamenti di massa, evasioni fiscali, attività di spionaggio illecite, suicidi, riciclaggio di denaro, svendita delle centrali telefoniche. Se dieci anni fa qualcuno ci avesse raccontato che quel map pamondo pieno di bandierine sarebbe stato spremuto come un pompelmo e che l’azienda sarebbe caduta sotto il dominio di Te lefónica, noi ridendo avremmo esclamato: «Ma che dite? Siamo noi che stiamo andando alla conquista della Spagna!».
Numeri imbarazzanti
Dopo sette anni di lavoro all’estero, ritornai in Italia e fui su bito colto da un senso di sconforto. Troppe chiacchiere, troppa aggressività, troppi scandali. Non riuscivo neanche più a vedere la televisione. Tornai a lavorare in una società di consulenza, il cui maggiore cliente era Telecom. Ma l’ambiente non sembrava più lo stesso, aleggiavano la sfiducia e lo sconforto. Passeggian do per i corridoi avevo la sensazione che nel giro di poco tempo quella apparente quiete sarebbe stata investita da una bufera.
«Qui c’è aria da funerale», mi disse un caro collega salutando il mio ritorno in Italia, «oramai i giochi sono fatti… l’azienda se la sono bevuta…». E lo confermavano le parole dell’avvocato Gui do Rossi, che il 6 aprile 2007, dimettendosi dalla carica di presi dente, sentenziò: «Un Paese che soffre di una così grave man canza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole ap profittarne, per chi pensa a portar via più soldi che può. Invece del fare, c’è l’arraffare. Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei baroni ladri nell’Ame 1 rica del primo Novecento» . Dopo aver vanamente tentato di porre rimedio a una «situa zione irrecuperabile», Rossi si era dovuto ricredere. «Far pulizia nel conflitto di interessi tra Tronchetti e Telecom» era impossi bile. Essersi fatto carico di quella responsabilità «nell’interesse dell’ultima grande impresa tecnologica italiana», oltre che del mercato e del Paese, era stata un’illusione. Mi sforzai di ritrovare la fiducia, ma il vero problema era che i miei amati fogli Excel erano oramai uno strumento in disuso. In una rete capillare di imbrogli e favoreggiamenti che valore professionale potevano avere delle analisi basate su parametri matematici? Le attività di consulenza si erano oramai ridotte per buona parte a pubbliche relazioni con finalità lobbistiche e il destino dell’azienda appariva segnato da un orientamento che bene ha spiegato Eugenio Scalfari:
[…] I guai di Telecom cominciano da quando è stata privatiz zata e ha avuto la sventura di diventare la preda di un capitali smo straccione, più attento a spolpare il grasso che a investire in prodotti e tecnologie. Non tutto il capitalismo italiano navi ga a questo infimo livello, ma buona parte purtroppo sì. La re gola prevalente è quella di arricchire i «predatori» a danno del l’azionariato diffuso e non organizzato, una maggioranza pol verizzata e quindi priva di qualunque potere. Gli strumenti per tenerla al guinzaglio sono vari ma con identiche finalità: scato
le cinesi, patti di sindacato, contratti di borsa speciali, rappor ti privilegiati con gruppi bancari. Il fine è sempre quello: spol pare l’osso, lesinare sugli investimenti, privilegiare i dividendi, i compensi ai dirigenti, le stockoption agli amministratori e utilizzare la societàpreda come fonte di potere politico e me 2 diatico. Questo è uno dei connotati del capitalismo italiano .
Da parte mia provai allora con alcuni colleghi a dare un volto numerico a queste frasi. Cominciato come un gioco, quel calco lo successivamente si trasformò in una vera e propria simulazio ne, con risultati a dir poco imbarazzanti. La sintesi di questo stu dio è riportata nella Figura 2 (p. 25) dove vengono considerati sia gli sprechi dovuti alle incapacità manageriali, sia le perdite le gate al perseguimento degli obiettivi individuali. In seguito a ge stioni a dir poco azzardate, l’azienda ha subìto uno spreco di ri sorse pari a 23,6 miliardi di euro; una cifra astronomica che am monta a circa l’1,8% del Pil italiano e all’equivalente di 500mila retribuzioni annuali di un impiegato medio. Con tali risorse si sa rebbe potuto dare lavoro a 50mila persone per 10 anni, evitando esuberi, tagli e scivoli; oppure si sarebbe potuto cablare in fibra non uno ma due Paesi, creando altrettanti posti di lavoro. Questi sprechi si riferiscono soltanto alla gestione operativa. Al vertice, esiste un’altra gestione, ben più importante per i for tunati che ne detengono il controllo: una gestione finanziaria che ha caricato di debiti l’azienda fin dall’inizio della privatizzazio ne. Questa doppia morsa ha di fatto strozzato gli investimenti annichilendo l’azienda. Se sommiamo gli sprechi della gestione operativa all’inutile indebitamento delle varie fusioni, si arriva a cifre stratosferiche che raggiungono diversi punti percentuali sul Pil, con un enorme danno per l’azienda e soprattutto per il Pae se. Dal 1999 ad oggi Telecom ha perso 70mila posti di lavoro, una perdita che, al di là della concorrenza e della disoccupazio ne tecnologica, può essere interpretata con il fenomeno dei vasi comunicanti. In poche parole: ciò che si perde da una parte si guadagna dall’altra. Prendendo due anni significativi, il 1999 e il
2007, rispettivamente l’anno dell’Opa e la fine dell’era Tron chetti, ci accorgiamo che i vasi comunicanti hanno funzionato perfettamente senza problemi di capillarità. Il monte salari si è dimezzato. Gli interessi bancari sono quintuplicati ed è aumen tato spaventosamente il peso degli sprechi attraverso operazioni inefficienti, poco trasparenti o semplicemente troppo generose, rimanendo pressoché invariato il totale dei tre flussi analizzati. In sintesi: i tagli occupazionali sarebbero stati funzionali agli sprechi e al pagamento degli interessi bancari. Non si tratta di un caso isolato. Sarebbe interessante calcolare le perdite di altre grandi aziende (Alitalia, Parmalat, Trenitalia, Cirio, Enel) e valutare l’ammontare del danno globale procura to dalle varie lobby industriali e politiche al reddito nazionale e in particolare all’occupazione. Il sospetto è che la somma sia enorme. Se solo in Telecom lo spreco di risorse è stato equiva lente all’1,8% del Pil, a che risultati si arriverebbe prendendo in considerazione il resto delle grandi aziende? 20%? 30%? Di più? Di certo la cifra sarebbe sorprendente. Ma anche quando la barca affonda c’è sempre qualcuno che ci guadagna. Chi? «Ci sono due modi per conquistare e sottomet tere una nazione», scrive John Adams (17351826, secondo Pre sidente degli Stati Uniti), «uno è con la spada, l’altro è control lando il suo debito». Affermazione che rende il caso Telecom sintomatico della deriva del sistema Paese: 130% il rapporto del 3 debito pubblico sul Pil e 130% il rapporto del debito aziendale sul fatturato di Telecom. Analogie? La logica dello «spolpamento» è infatti sempre la stessa: i gruppi di interesse, dopo aver comprato pacchetti azionari ri correndo interamente al debito, posizionano nei posti chiave gruppi di manager ben organizzati e molto affiatati, dediti prin cipalmente al conseguimento degli obiettivi degli azionisti di controllo e all’inevitabile drenaggio di risorse dalla malcapitata azienda verso le casse delle società amiche. Attraverso abili gio chi finanziari di continue fusioni e acquisizioni, talvolta del tut to ingiustificate, i gruppi di controllo si cimentano nella magia di
addebitare sulle aziende stesse i debiti con i quali sono state ac quistate. E qualsiasi operazione che abbia come oggetto i tagli occupazionali o la vendita del patrimonio immobiliare troverà la sua giustificazione nel contenimento dell’onere finanziario con cui sono stati acquistati i pacchetti di controllo. Questi gruppi assomigliano molto a una «banda» di suonatori che passando impunemente da azienda in azienda dopo la marcia trionfale, la sciando agli altri quella da requiem. Il problema è che in questa particolare fase del nostro sistema politico ed economico, alcuni eventi un tempo clamorosi sono oramai routine. Non fa più scandalo neanche sapere che UniCre dit, dopo aver annunciato quattromila esuberi, abbia liquidato il già milionario direttore generale Alessandro Profumo con 40 mi lioni di euro (cifra pari allo stipendio di duemila lavoratori). O sa pere che lo stipendio annuale di Marchionne ammonta a 48 mi lioni di euro quando gli stabilimenti della Fiat si ritrovano in cas sa integrazione. Da una parte si mandano a casa dipendenti che percepiscono mille euro al mese facilitando una miriade di tipolo gie contrattuali sotto il falso mito dell’efficienza e dall’altra si elar giscono bonus di svariati milioni di euro in favore di manager e banchieri, con danni irreparabili sul sistema Paese. Questo è il ca pitalismo? No, è «peggiocrazia», come direbbe il professor Luigi Zingales, ovvero Il governo dei peggiori e non dei mediocri. Ma a lungo andare gli effetti di questi processi degenerativi è abbastan za evidente. Le statistiche dell’Eurostat evidenziano che negli ulti mi 15 anni c’è stato un netto crollo del Pil pro capite italiano non solo rispetto alla media europea ma anche nei confronti dei Paesi più sviluppati quali Germania, Francia, Inghilterra e Spagna. E i risultati del rapporto del Censis (L’Italia nel 2030) sono ancor più inquietanti: «Il Sud si spopolerà a favore del CentroNord, i gio vani saranno un milione in meno mentre gli anziani diventeranno un quarto abbondante della popolazione italiana. Se i posti di la voro non aumenteranno al ritmo di 480mila l’anno il nostro teno re di vita si ridurrà notevolmente…». E di fronte a queste pro spettive così scoraggianti cosa fanno le istituzioni?
Il recente piano di scalata da parte di Telefónica per arrivare ad 4 essere il socio di maggioranza del pacchetto di controllo Telco , sancirebbe l’inesorabile sconfitta del capitalismo italiano. L’unico piano possibile dell’operatore spagnolo è quello di mirare a una vendita delle partecipate estere in Brasile e Argentina con un suc cessivo smembramento della componente italiana, che divente rebbe preda di qualsiasi gruppo internazionale, una volta crolla to il valore delle azioni in borsa. Oggi, ci troviamo nella stessa condizione di 15 anni fa, epoca in cui alcuni disinibiti gruppi in dustriali e finanziari iniziarono a danneggiare l’azienda. «Invito a sentire il discorso che fece Bernabè in videoconferenza nazionale alla fine degli anni ’90 a tutti i dipendenti del gruppo, su quello 5 che sarebbe successo, se fosse passata l’Opa del secolo» , com menta Franco Lombardi, presidente dei piccoli azionisti di Tele com Italia. «Lo stesso discorso andrebbe risentito mettendo la parola “Telefónica” al posto della parola “Colaninno”. Gli even ti si ripetono, la storia è ferma».
Figura 1. Telecom Italia nel mondo (anno 2000). In colore più scuro, i Paesi in cui era presente la compagnia italiana.
Figura 2. Simulazione sugli sprechi della gestione operativa dopo 10 anni di privatizzazione (fonte: Asati).
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